Sul viaggiare: viaggiare è aprirsi

#sulviaggiare


Viaggiare non ha nulla a che fare con i chilometri che ti lasci alle spalle. Puoi farlo anche nella tua città, scendendo a una stazione dell’autobus dove non sei mai sceso… Viaggiare ha molto a che fare con una predisposizione interna, con l’aprirsi, con l’attesa prima del giudizio.

Qualche domenica fa me ne stavo all’ombra sul mio balcone leggendo Robinson, il supplemento letterario di Repubblica (il numero di cui parlo è questo). Dentro c’era un’intervista alla scrittrice Judith Schalansky a proposito di viaggi e luoghi remoti. Lei è l’autrice dell’ormai leggendario Atlante delle isole remote. Ho appuntato questa frase sulle note del mio telefono con l’intento di rileggerla e rimuginarci sopra. Non ho più smesso di pensarci.

Mi ha fatto guardare sotto una luce diversa qualcosa che faccio abitualmente sin dagli anni dell’università. Quando arrivavo in anticipo per una lezione, oppure uscivo tardi per agguantare il treno più vicino e dovevo aspettare un’oretta il seguente, non c’era stanchezza che tenesse: me ne andavo a zonzo a scoprire angoli di Catania che mi erano ancora ignoti. Oppure ripassavo dalle vie di sempre scegliendo di guardare tutti i balconi, solo i balconi. O tutti gli angoli dei tetti dei palazzi, o le scale delle chiese, oppure la pavimentazione su cui via via poggiavo i piedi. Una cosa per volta, lungo tutta la via. Solo quella, con intenzione. Ho scoperto cose strabilianti, mai notate prima.

Altre volte sceglievo di girare sempre a destra, oppure sempre a sinistra, a ogni svolta possibile che mi si parava davanti sulla via, fosse un percorso nuovo o la strada di sempre tra facoltà e stazione. Un gioco che faccio ancora spesso, sia nella mia città che quando sono altrove. Lo scopo è sorprendermi, rinnovare lo sguardo, osservare quello che di solito resta sullo sfondo, alla periferia dei miei occhi, o ignorato del tutto.

La foto di apertura è di Annie Spratt/Unsplash

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